Al Gore NON E' un profeta

lunedì 16 giugno 2008

Gli orsi polari annegheranno tutti. Lo dice Al Gore, ma noi non ci crediamo
L’ambientalista scettico Bjorn Lomborg spiega perché il global warming è un problema serio, talmente serio che deve essere tolto dalle mani dei catastrofisti verdi che campano sulle nostre paure. Se investissimo altrove un sessantesimo di quanto vuole Kyoto, potremmo evitare 85 milioni di morti
di Angelo Crespi

Gli orsi polari sono il primo problema. Se la terra continuerà a riscaldarsi, come avvertono gli ecologisti più duri, i ghiacci si scioglieranno e questa specie di plantigradi non ce la farà a sopravvivere. Al Gore che del “verdismo” è un vero professionista, ne è convinto e cita le stime del WWF: gli orsi annegheranno in massa, oppure smetteranno di riprodursi entro il 2012, cioè tra soli quattro anni. Detta così, sembra persino inutile farsene un cruccio, e parimenti inutile pensare a costosissimi interventi per invertire la rotta del clima.
D’altronde, quella del riscaldamento globale e dell’effetto serra è una litania ormai così ben collaudata da lasciare interdetti i pochi resistenti. Al Gore, sedicente ambasciatore mondiale del protocollo di Kyoto, vince il Nobel per la Pace, Bjorn Lomborg, professore di statistica danese e autore del comunque fortunato "L’ambientalista scettico", è invece guardato con sospetto, al massimo con poco cortese sussiego.
Eppure Lomborg, da micranioso matematico, sviscera dati e cifre che sembrerebbero contrastare in modo definitivo il catastrofismo di cui l’Occidente è vittima. Per esempio nell’ultimo studio (Stiamo freschi, Mondadori, pp.232, €18,00) con la solita verve e pacatezza, ci mostra come l’allarmismo in tema di warming è davvero fuori luogo. E se anche “warming” ci sarà come sembra, non è con il protocollo di Kyoto che potremo ovviare.

Seguiamo il percorso di Lomborg. Innanzitutto sfatiamo la leggenda degli orsi bianchi. Dagli anni Sessanta in poi, la popolazione complessiva di questi animali è aumentata da 5.000 esemplari a 25.000, soprattutto in ragione di una maggior regolamentazione della caccia. I mutamenti climatici per ora non sono stati influenti e tanto meno i gas serra.

Adesso analizziamo il “riscaldamento globale” che suscita preoccupazioni per via del cosiddetto “effetto serra” che di per sé è un fatto naturale e positivo, visto che in mancanza il nostro pianeta sarebbe mediamente più freddo di 33 gradi centigradi e di fatto molto meno ospitale.
Dalla fase industriale in poi, gli uomini hanno contribuito, bruciando combustibili fossili, ad aumentare il contenuto totale di biossido di carbonio (CO2) presente nell’atmosfera e dunque a facilitare il riscaldamento del globo. Se le politiche industriali ed energetiche non cambieranno, entro il 2100 la temperatura media si alzerà di 2,6° C. La qual cosa è poco significativa: nonostante le fosche previsioni dei registi di Hollywood, ciò non produrrà ondate di caldo a dismisura e immani desertificazioni, più semplicemente serate invernali meno fredde.

Più in generale, aumenterà il caldo dove è già caldo, ma diminuirà il freddo dove è ora freddo. Così, se davvero moriranno più persone per il caldo, meno ne moriranno per il freddo e secondo le statistiche al giorno d’oggi sono infinitamente molti di più i morti freddati che quelli accaldati anche se quest’ultimi fanno maggior rumore (tanto per dire, in Inghilterra 2.000 persone l’anno muoiono per il caldo, circa 25.000 per il freddo).
Inoltre, è bene ricordarlo, durante lo scorso millennio le temperature sono aumentate, diminuite, poi di nuovo aumentate per cause naturali. Abbiamo avuto un “periodo caldo medioevale” durante il quale i vichinghi conquistarono terre altrimenti insopitali come la Groenlandia (“terra verde”) e il Vinland, l’attuale Terranova (“terra delle vigne”). Poi a metà dello scorso millennio ci fu la cosiddetta “piccola era glaciale” grazie alla quale, tramandano le cronache, gli eschimesi approdavano con i loro kayak in Scozia.
E anche negli ultimi decenni le cose, almeno dal punto di vista mediatico, non sono andate meglio, basti compulsare gli ultimi cinquanta anni di pubblicistica in cui si sono alternate minacciose profezie sul riscaldamento e sul raffreddamento con le più autorevoli testate del mondo, dal New York Times al Science Digest, a rincorrersi sbagliando.

Arriviamo però al terzo punto messo in luce da Lomborg, chiedendoci se le attuali politiche sancite a Kyoto nel 1997 sono davvero efficaci per ridurre i gas serra e contestualmente limitare il surriscaldamento.
Anche se tutti i Paesi industrializzati lo avessero ratificato (Usa e Australia non lo hanno fatto) e tutti avessero attuato le direttive (cosa che molti faticheranno a fare) e vi si attenessero per tutto il XXI secolo (cosa ancora più difficile), i cambiamenti sarebbero comunque lievi: «nel 2050 la temperatura si ridurrebbe di un impercettibile 0,5° C e nel 2100 sarebbe più bassa soltanto di uno 0,18° C. Ciò significa che l’atteso aumento di temperatura sarebbe rimandato di 5 anni, dal 2100 al 2105».
E tutto questo sforzo pressoché inutile, costerebbe “appena” 180 miliardi di dollari all’anno a partire dal 2008, circa lo 0,5 del Pil mondiale. Dal che si deduce che il costo per ridurre le emissioni è quasi improponibile e comunque svantaggerebbe troppo i Paesi oggi leader nel mondo, ed è altresì velleitario credere che la civiltà possa fermarsi assumendo comportamenti preindustriali.
Detto per inciso, se davvero pensassimo di abbassare le temperature in una megalopoli come Los Angeles sottoposta a fenomeni di warming anche per problemi diversi dall’effetto serra, basterebbe dipingere l’asfalto delle strade di bianco, i palazzi e i tetti con colori chiari, piantare 11 milioni di alberi, e il costo dell’operazione una tantum sarebbe appena di 1 miliardo di dollari, ma produrrebbe benefici annui per circa 170 milioni di dollari e riduzione dello smog per circa 360 milioni. Le temperature poi si abbasserebbero di oltre 3° C.

Ma questo è ancora poco. Lomborg giustamente sottolinea come il problema del riscaldamento globale sia solo uno dei tanti sul tappeto.
Secondo l’Organizzazione mondiale della sanità, i cambiamenti climatici uccidono attualmente ogni anno circa 150.000 persone nei Paesi in via di sviluppo.
Vale però la pena ricordare che almeno 4 milioni sono i morti per denutrizione, 3 milioni per l’Aids, 2,5 milioni per l’inquinamento negli ambienti interni o esterni, 2 milioni per carenze nutrizionali, e quasi 2 milioni per mancanza di acqua potabile.
Davanti a queste cifre, è ovvio che le priorità cambiano. L’importante è valutare, come ha fatto un gruppo di studio con alcuni premi Nobel, il vantaggio reale che si trae per ogni dollaro speso.
In una tabella comparativa dell’efficienza economica dei vari investimenti possibili (Cfr Lomborg p. 43) si nota come alcune soluzioni a problemi mondiali siano ottime opportunità (per esempio per la “denutrizione” l’apporto di micronutrienti), alcune altre siano buone opportunità (sempre per la “denutrizione” lo sviluppo di nuove tecniche agricole), altre ancora siamo mediocri opportunità (sempre per la “denutrizione” il miglioramenteo dell’alimentazione di neonati e bambini), e infine alcune siano cattive opportunità (per il “clima”, appunto il protocollo di Kyoto).

Ovviamente con questo non si vuol dire che non dobbiamo fare nulla per i cambiamenti climatici, ma solo che bisogna muoversi in modo più intelligente, investendo risorse in strumenti che davvero portino benefici concreti.
Quella del “riscaldamento”, grazie agli ambientalisti alla Al Gore, è diventata una vera ossessione che rischia di farci dimenticare il resto e di misurare le politiche sociali solo in ragione del CO2. Per esempio, siamo preoccupati per i danni provocati dagli uragani negli Stati Uniti forse causati dal mutamento climatico, eppure non vengono migliorati i regolamenti edilizi.
Applicando Kyoto possiamo evitare circa 140.000 morti per malaria nel corso di un secolo, ma con un sessantesimo dell’investimento direttamente sulla malaria potremmo evitare 85 milioni di morti.
Per ogni persona salvata dalla fame grazie a Kyoto ne potremmo salvare 5.000 tramite alcune semplici politiche agricole.

In conclusione, saggiamente Lomborg propone alcuni rimedi. In primis, la possibilità che ogni nazione più che investire tout court sulla diminuzione delle emissioni dannose, spenda almeno lo 0,05% del Pil nella ricerca e messa a punto di tecnologie a zero emissione di biossido di carbonio. Il costo sarebbe relativamente basso, ma permetterebbe di massimizzare gli sforzi e renderli adeguati economicamente e politicamente a ciascun Paese.

Se invece continuassimo sulla strada segnata dal protocollo di Kyoto, rischieremmo di impoverire eccessivamente le future generazioni e a quel punto il riscaldamento, gioco forza, non sarebbe più il primo problema.
La partita non è facile. Già oggi, per fare un esempio, ci vorrebbe poco per diminuire le morti da incidente stradale che sono tra le prime cause di mortalità in Occidente. Eppure non viene fatto nulla.
Nel caso del clima si è scelta la strada peggiore, cioè quella di instillare inutile preoccupazione e paura per il futuro, quasi si cercasse un capro espiatorio. La cosa è già successa nella storia. L’allarmismo ha radici antiche: nell’Europa medievale molte streghe venivano accusate di essere la causa del maltempo, e bruciate. Questo sì, un surriscaldamento nefasto.

Fonte: Il Domenicale

Basta per confermare che Al Gore è un furfante che si è arricchito grazie alle paure della gente o occorrono altre motivazioni?

3 Comments:

Anonimo said...

Al Gore un furfante??
per forza è di sx...
ciao
sarc.

gaddhura said...

Sante parole, Sarc ;)
Già concluse le vacanze?

Anonimo said...

Ciao Gaddhura
le vacanze? era solo un acconto di 10 gg. il saldo ad agosto...

a presto
Sarc.
ps fare comm sul blogger è sempre un terno al lotto.